La Signora Noncè portava un costume nero. Intero. Molto castigato. Nessun cappello e occhiali da sole con la montatura d’oro. Era sola. Morbidamente sdraiata sul lettino di vimini a bordo piscina, guardava i fiorellini viola del rosmarino tardivo, pensando all’improvviso e progressivo isolamento in cui, suo malgrado, si era avviata.
Della prima le restava un ricordo forte, ma lontano come gli anni dell’università.
Dalla seconda aveva ottenuto un magnifico germoglio e otto inverni di gelo.
Dalla terza, l’idea prima e la certezza poi, di non essere fatta per le mele, per i cestini formato famiglia, e per gli spot del Mulino Bianco.
Aveva, dai tempi del lavoro in ateneo, quando insegnava TQM, preso la curiosa abitudine di scrivere le proprie regole, facendone istruzioni chiare e dettagliate e dedicandosi, ogni tanto, al loro aggiornamento.
Ce n’era in particolare che le era stata subito scomoda. Fino al giorno del rosmarino, però, non le era nemmeno mai passato per la testa di cambiarla. Di non rispettarla. Di tradirla.
“Devo davvero pensarci bene”, si disse, “prima di mandare tutto a puttane”.
Si alzò e si fece una nuotata nella vasca gelida.
Non erano ancora le nove. E forse sarebbe piovuto.
Aveva dormito bene, la notte prima, ma il suo sonno era stato interrotto dall’ululato del pastore tedesco dei vicini. E con il sonno, un sogno che mentre nuotava tornava in mente, davanti agli occhi. E a se stessa.